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Un tuffo nella memoria: la nostra visita al Museo dell’Apartheid

Entrare nel Museo dell’Apartheid di Johannesburg non è come visitare un museo qualsiasi. È come attraversare una frontiera invisibile tra passato e presente. Già all’ingresso ci siamo trovati di fronte a una scelta che non dipendeva da noi: il biglietto indicava se si doveva entrare dal lato “bianco” o “nero”, come accadeva davvero in Sudafrica fino agli anni ’90. Un inizio spiazzante e potente.

L’ingresso al Museo

All’interno, l’atmosfera è solenne. I colori, le fotografie, i suoni: tutto è studiato per immergerti nel periodo buio della segregazione razziale. Camminando tra i corridoi, abbiamo visto documenti originali, testimonianze video, oggetti quotidiani. Una delle installazioni che mi ha colpito di più è una parete di enormi tessere con le leggi razziali: un elenco quasi infinito che regolava ogni aspetto della vita.

Percorso esterno con figure senza volto a simboleggiare la perdita di identità causata dalla segregazione razziale

Il percorso è cronologico, e parte dalla nascita dell’apartheid fino alla sua abolizione. Si passa dalle lotte civili, con pannelli dedicati a Mandela e ai grandi attivisti, alle violenze e alle repressioni. In alcune sale regna il silenzio assoluto, quasi ci fosse il bisogno collettivo di riflettere.

All’interno la bandiera del sudafrica, adottata nel 1994, che simboleggia l’unione dei diversi gruppi etnici e culturali del Paese

Una curiosità che non mi aspettavo? Nelle aree esterne c’è un piccolo giardino con colonne di pietra dove i visitatori possono appendere messaggi personali. Una sorta di tributo alla resilienza e al dialogo. Non è stata una visita “facile”, ma è stata fondamentale. Il Museo non punta a emozionarti con effetti speciali: lascia parlare la storia, cruda, vera e recente.